Valore, trappola delle competenze e disruptive innovation.
Daniele Binci
EQUITY PARTNER
Change Management
In 50 Parole
Distinguere cosa produce valore aziendale in un determinato contesto e in un determinato momento da cosa invece non lo produce, rappresenta la base del concetto di trappola delle competenze, un modo efficace di leggere il successo e la prosperità organizzativa mettendone in discussione i presupposti.
Perché interessa l’imprenditore SMART
Quante e quali attività si annidano dietro processi che producono ridondanze, appesantiscono la produzione, e soprattutto non aggiungono valore al cliente? Quanti passaggi tra le risorse umane sono necessari per produrre un item (semilavorato o un prodotto), che potrebbero essere ottimizzati, annullati o ridisegnati con la tecnologia? Cosa davvero vede il cliente, e cosa soprattutto non vede rispetto il prodotto o il servizio che gli stiamo fornendo? Quanto le attività che costituiscono la catena del valore sono sincronizzate con l’ecosistema?
Chiedersi e cercare sistematicamente cosa non funziona, o non produce valore nel business, le “Not Value Activities”, comprendere come monitorare ed implementare questo tipo approccio, rappresenta una priorità non solo per il miglioramento nel breve, ma anche per la sopravvivenza nel lungo periodo, evitando che il consolidamento del successo porti, paradossalmente, alla creazione del fallimento.
Dimmi di più
La teoria manageriale, attraverso il concetto di “trappola delle competenze”, sostiene che se da un lato la stabilità creata dal set di regole, relazioni, tecnologia e cultura consolida le condizioni di successo e di prosperità aziendale, dall’altro pone le condizioni per rafforzarne quelle di fallimento.
Da questo punto di vista, il selected-out di Polaroid è un caso emblematico. Espressione della cultura del “tutto sta andando bene”, in Polaroid la trappola delle competenze si è concretizzata, ancora prima che nel ritardo di adottare la filosofia della “digital transformation” convertendo le “core competencies” chimiche in “digitali”, nella difficoltà di capire che la tecnologia e i processi chimici non sarebbero stati, nel lungo periodo, processi “a valore”, ma, anzi, che la disruptive innovation [1] latente li avrebbe fatti cadere nell’obsolescenza (insieme a molte altre parti della catena del valore aziendale).
Quindi, affinché tutto vada davvero bene, occorre pensare che, ma soprattutto scoprire come, il business potrebbe fallire. Non si tratta di un presupposto di pessimismo organizzativo, quanto di un approccio per mettere in discussione, e quindi sottoporre a miglioramento, il proprio business evitando la trappola delle competenze, e finire, anzitempo, fuori dal mercato quando una disruptive innovation irrompe.
Per affrontare un problema così indefinito come quello della focalizzazione sul valore, tra le varie tecniche suggerite nel mondo consulenziale ed accademico vi è la value analysis. Si tratta di una tecnica per identificare, attraverso un percorso riflessivo, le attività associate alla catena del valore e scoprire, secondo una classificazione stabilita, quelle che generano un plus effettivo per il cliente.
Il valore è un concetto dinamico, come l’ambiente in cui si trova il cliente, e relativo, poiché definito dalla sua aspettativa, che non si identifica solo in aspetti tangibili come il pricing, ma anche in aspetti intangibili, come la durata o la qualità di una relazione. In quanto tale, il valore va ponderato o relazionato all’ambiente competitivo, analizzandolo ed analizzandone le attività che lo producono (o lo sottraggono), sia all’interno della value chain che nel rapporto tra questa e l’ecosistema.
Nota [1]: Ad esempio, quella di Sony che stava creando un nuovo mercato, quello della fotografia digitale, su cui, pur non essendo leader di quel mercato, e neanche competitor, ne possedeva potenzialmente tutte le best practices.